Sono 12944 i beni confiscati alla mafia in Italia, 1186 in Lombardia, 52 nel territorio di Monza e Brianza.
Per consultare i dati e le informazioni relative a ciascun bene confiscato visita il sito:
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Capire serve a cambiare
La storia della mafia è anche una storia di donne : sono le donne che compongono e subiscono la criminalità organizzata; sono le donne oggetto di vendetta per un torto subito in un contesto che non le riguarda direttamente; sono le donne che con il loro silenzio permettono alle mafie di mandare avanti i propri affari.
Sono le donne magistrato, giornaliste, sindaco che giorno dopo giorno combattono il sistema mafioso.
Leggere la storia delle loro vite serve a capire la natura stessa della mafia, la cultura di cui sono portatrici, il sistema di valori che la caratterizza, il modello sociale di riferimento.
“…è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i deliquenti”.
Chi è?
E’ “la donna giudice” ovverosia la grazia contro la giustizia”, così descritta in un libercolo di 70 pagine, pubblicato nel 1957 e scritto da Eutimio Ranelletti, presidente onorario della Corte di Cassazione,
L’ ammissione delle donne all’esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli.
La legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all’ esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’ esercizio della giurisdizione.
Il dibattito in seno all’ Assemblea Costituente circa l’ accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace e rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare:
Solo la legge n. 66 del 9 febbraio 1963 consentì l’accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura.
Al primo concorso otto di loro risultarono vincitrici e nel 1965 entrarono nel ruolo della magistratura.
Una di queste era Maria Gabriella Luccioli.
Nata a Terni il 7 maggio 1940, nel 2008 diventa la prima donna nominata Presidente di sezione della Cassazione.
Nel 2007 in una importante sentenza sul caso di Eluana Englaro, afferma il “diritto alla autodeterminazione terapeutica” per i malati terminali.
Nel 2013 emana una storica sentenza nella quale legittima l’affido di un bambino a una coppia formata da due donne, in quanto “un bambino può crescere in modo sano ed equilibrato anche con una coppia omosex, non vii sono certezze scientifiche o dati di esperienza che provino il contrario”
Negli ultimi vent’anni le sue sentenze hanno influito notevolmente nella revisione del diritto di famiglia, dall’obbligo del cognome paterno per i figli legittimi, alla tutela del coniuge più debole, sull’assegno di divorzio, all’addebito di separazione.
Maria Gabriella non vuole solo fare carriera in un mondo maschile, ma vuole costruire un modello diverso di giudice, sulla base di competenza, proifessionalità, ma soprattutto di umanità e di sensibilità femminile.
Dice infatti che “il valore della differenza di genere non va negato dietro la toga anonima, ma rivendicato, perché arricchisce uomini e donne. Solo le donne possono introdurre la cultura di genere, i valori della differenza, il rispetto dei loro diritti. Con la loro presenza e le loro idee possono portare avanti certe battaglie che finora sono state quasi completamente ignorate da molti colleghi uomini, anche dai migliori”
Nel 2013 per la nomina del nuovo Presidente della Cassazione Maria Gabirella figura (per la prima volta una donna) tra gli 8 candidati.
La sua candidatura è sostenuta da diverse associazioni – Tribunale 8 marzo, Noi Rete Donne, C.I.F. (Centro Italiano Femminile), Soroptimist International d’Italia, U.D.I.(Unione Donne in Italia), A.N.D.E. (Associazione Nazionale Donne Elettrici),A.I.D.D.A. (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda),C.N.D.I. (Consiglio Nazionale Donne Italiane, Noi Donne, Fondazione Bellisario, Arcidonna, Club Unesco d’Italia, Casa Internazionale delle Donne, Archivia, Unicpo– che, con una lettera al Predente della Repubblica, sottolineano che:
“è questa l’occasione per dare concretezza al processo da tempo in atto nella società civile e nelle istituzioni democratiche per la piena realizzazione della parità tra donne e uomini, parità che costituisce principio fondamentale della Unione europea…”.
Il 18 aprile la Corte vota il suo Presidente: è Giulio Santacoce.
Aspettiamo la prossima occasione……
Vorrei raccontare di una grande donna che, pur essendo una madre e nonna esemplare, ha cercato con la sua attività concreta di aiutarci tutte a fare un passo avanti nel percorso verso la parità.
Adalgisa Vanetti nasce a Gallarate il 30/06/1930 e dopo la guerra si trasferisce a Milano dove conosce e poi sposa Giuseppe Bernardoni, pittore. Negli anni ’70 apre sul Naviglio una galleria d’arte.
Era un periodo di grande fervore culturale nel quale i grandi dogmi venivano messi in discussione, tra i quali il preconcetto della superiorità maschile. Per Isa questa è la grande battaglia, e in particolare, sente come umiliante per la “persona donna” l’essere sempre valutata in base all’aspetto fisico e il dover essere sempre “attraente”.
Organizza mostre sulle tematiche femminili, alcune incentrate sui libri della scrittrice Armanda Guiducci – i titoli più famosi sono “2 donne da buttare”, “La donna non è gente”.
La galleria diventa un centro culturale conosciuto, spesso ai vernissage è presente la critica Paola Fallaci.
La mostra più famosa rimane “Dalla costola di Eva” che dura dal 15 al 30 aprile 1977 e che nasce dal desiderio di sradicare lo stereotipo della donna-oggetto, sempre esposta allo sguardo maschile e vuole mostrare una donna soggetto attivo che dipinge il corpo dell’uomo.
Isa trova 5 pittrici di indiscusso talento e di forte personalità, che non temono il tema, per allora scandaloso, dell’amore della donna verso il corpo del maschio. Le pittrici trattano il nudo maschile in modo molto personale, ma comunque con la delicatezza e la dolcezza dell’amore verso il compagno.
La mostra ha notevole successo e grande rinomanza, tanto è vero che Isa replicherà circa 20 anni dopo.
(testo e foto di Lionella)
“Era bionda, era bella, era piccina ma avea
cor di leone e di soldato”.
Fu una donna speciale, moglie e madre e allo stesso tempo una combattente, vestì i panni di un uomo e un berretto per nascondere i lunghi capelli, era Antonia Masanello, l’unica donna della spedizione dei Mille di Garibaldi.
Dotata di temperamento audace e spirito battagliero, sin da ragazzina Tonina insieme al marito aiutò i connazionali del Lombardo-Veneto a espatriare in Piemonte per fuggire al dominio austriaco.
Quando seppe che Garibaldi stava organizzando una spedizione in Sicilia, affidata ad amici la figlioletta, si diresse insieme al marito a Genova per l’imbarco, ma quando vi giunse, la storica spedizione era già partita.
I due si imbarcano poche settimane dopo con una spedizione di rinforzo e raggiunsero i Mille a Salemi.
Per salire a bordo e partecipare alla spedizione “Masenela” fu costretta a camuffarsi da uomo e ad assumere l’identità di Antonio Marinello, il cognato .
Venne arruolata nel terzo reggimento della Brigata Sacchi e partecipò a tutta la campagna per la liberazione del sud Italia.
Tonia si fece onore in battaglia combattendo con lo stesso ardore di un soldato esperto e si guadagnò così il rispetto di quelli che conoscevano la verità.
Insieme ai Mille conquistò il Regno delle Due Sicilie, espugnò la fortezza di Gaeta, dove si erano rifugiati i sovrani borbonici e arrivò Roma.
L’incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, nuovo Re d’Italia, mise però fine all’avventura, la spedizione era finita!!!
L’esercito garibaldino venne sciolto, Antonia ottenne il berretto da caporale e il congedo con onore.
Lei e il marito tornarono a casa e vissero in povertà finchè, colpita da tisi, “Masenela” morì nella primavera del 1862. Sepolta nel cimitero fiorentino di San Miniato, questo l’epitaffio scritto dal poeta risorgimentale Francesco Dall’Ongaro :
“L’abbiam deposta, la Garibaldina
all’ombra della Torre di San Miniato
con la faccia rivolta alla marina
perché pensi a Venezia, al lido amato.
Era bionda, era bella, era piccina ma avea
cor di leone e di soldato.
E se non fosse che era donna
le spalline avria avute e non la gonna
e poserebbe sul funereo letto
con la medaglia del valor sul petto.
Ma che fa la medaglia e tutto il resto?
Pugnò con Garibaldi, e basti questo!”
Nadine Gordmer, scrittrice nordafricana e premio Nobel per la letteratura nel 1991, è morta a Johannesburg il 13 luglio 2014.
”era una minuscola, piccola grande donna. Una battagliera fantastica per tutti i diritti umani e civili”, Inge Feltrinelli ricorda così Nadine Gordmer, scrittrice nordafricana e premio Nobel per la letteratura nel 1991, morta a Johannesburg il 13 luglio 2014.
Nadine nasce nel 1923 a Springs, centro minerario a est di Johannesbourg, da padre lituano e madre londinese, due immigrati ebrei .
Durante l’infanzia prende lezioni di danza e frequenta una scuola di suore dalle quali viene avvisata di stare attenta alle baracche dove vivevano i minatori neri quando attraversava la prateria per recarsi a scuola.
Un giorno accompagna sua madre ad acquistare delle lenzuola in un negozio in città; il commesso mostrava ad entrambe differenti qualità di tessuti che loro esaminavano e toccavano più volte ,mentre un altro cliente nero doveva segnalare con un dito quello che gli interessava, ma non poteva toccare alcun tessuto.
Viene così a contatto con il razzismo.
Sola da adulta Nadine racconterà della sua infanzia a Springs e di quegli anni ricorderà la presenza “spettrale dei lavoratori neri “ che vivevano ai margini del suo mondo e la sua crescente consapevolezza della differenza di classe e del razzismo che permeava la società sudafricana.
A 11 anni lascia la scuola per problemi di salute e passa tutto il tempo a casa. In questa esistenza solitaria trova nella lettura un mondo d’avventura e inizia precocemente e scrivere.
Pubblica il suo primo racconto su una rivista locale per ragazzi nel 1937 e a 15 anni la prima raccolta per adulti.
Frequenta l’università per un anno, dove incontra una diversa realtà: neri africani intellettuali e artisti e presto si rende conto di avere più punti in comune con loro che con i bianchi della sua città natale.
Nel 1948 lascia l’università e si si trasferisce a Johannesburg, in quello stesso anno il Partito Nazionale vince le elezioni e comincia la sua politica di apartheid; alcuni quartieri vengono demoliti e i neri vengono allontanati per far posto ai bianchi .
Nadine, tramite i contatti stabiliti all’università, comincia ad impegnarsi in politica, nell’African National Congress (ANC).
A Johannesburg la scrittrice conosce e stabilisce una profonda amicizia con il sindacalista Bettie du Toit che forma il suo pensiero politico e fa crescere in lei l’opposizione alla supremazia bianca.
Nadine Gordimer diventa anche grande amica di Mandela e di tanti altri leader della lotta contro l’apartheid, unica intellettuale bianca alla quale veniva riconosciuto un grande prestigio anche da parte dei neri.
Nel 1990 il governo riconosce l’ANC come partito legale d’opposizione e subito dopo iniziano i negoziati per la transizione verso una democrazia multirazziale, lo stesso anno viene annunciato che Nadine Gordimer avrebbe ricevuto il premio Nobel per la letteratura.
La scrittrice sudafricana bianca, come amava definirsi, ha dedicato la sua vita alla difesa della giustizia consapevole dei torti inflitti dai bianchi ai nativi sudafricani.
Nei saggi, ma anche nei suoi romanzi e racconti racconta della famiglia, dei i bianchi rifiutati dai bianchi,dei neri visti con sospetto del futuro vissuto come un’incognita, della questione femminile denunciando la condizione delle donne nere, ma anche quella delle donne bianche che, specie se benestanti, restavano relegate nella quiete delle loro case.
Durante la sua carriera fu spesso sottoposta a censura nel suo paese, ma scelse di continuare a viverci.
Fino all’ultimo la scrittrice ha invitato a guardare avanti , al Sud Africa dopo apartheid, che dopo l’euforia della realizzazione di un sogno, non aveva sconfitto il razzismo.
Infatti dice “abbiamo sconfitto l’apartheid, ora sconfiggiamo i pregiudizi che ci sono rimasti nella testa”.
Il 14 luglio ci ha lasciato una grande donna forte e battagliera, che ha saputo combattere per le cose vere e importanti, per la giustizia e l’eguaglianza fra le persone.
“La sua scrittura è stata un beneficio per l’umanità”, queste le motivazioni per il Nobel, queste le motivazioni per le quali iniziare a leggere le sue opere.
“Non c’è più l’Alfonsina!”
“Non c’è più chi?” Mi chiedono i colleghi di lavoro che non capiscono di chi stia parlando.
Agitatissima spiego loro che Alfonsina la Poderosa, la mia bicicletta, è scomparsa. Non è più dove l’avevo parcheggiata. All’inizio penso e spero in uno stupido scherzo ma poi devo arrendermi all’idea del furto.
Faccio fatica a crederci. All’ora di pranzo era lì, ne sono certa ed ora nessuna traccia.
Aveva 10 anni e non li dimostrava per nulla. Era più di un semplice mezzo di trasporto. La utilizzavo per tutti i miei spostamenti, era la fedele compagna nel tragitto casa/lavoro, la usavo per andare al supermercato, per recarmi a trovare amici e, cosa più importante, per le ciclo vacanze.
Alfonsina mi aveva accompagnata nelle mie avventure di cicloturista in alcuni dei percorsi che rimangono tra i miei preferiti sopportando il mio peso e quello dei bagagli facendomi pedalare con un senso di totale sicurezza. Ogni volta che poggiavo le mani sul manubrio e i piedi sui pedali era come se completassi di vestirmi. Ero arrivata a sentire la sensazione che lei fosse come un prolungamento del mio stesso corpo e per questo ora sentivo che nel portarmela via era come se mi avessero strappato qualcosa di dosso.
Era la prima bicicletta importante che avevo comprato, così importante da meritarsi un nome speciale: Alfonsina dal nome di Alfonsina Strada, prima e unica donna ad aver partecipato al giro d’Italia nel 1924 e, La Poderosa dal nome della moto con cui il giovane Che Guevara nel 1951 fece un viaggio alla scoperta dell’America latina.
Per lei avevo una cura che, utilizzata da altri avrei giudicato maniacale. Quando, pedalando, mi capitava di venir colta dalla pioggia, appena giunta a destinazione, la prima preoccupazione era quella di asciugarla per bene di modo che nessuna sua parte corresse il rischio di essere intaccata dalla ruggine.
Poco tempo prima del furto avevo deciso di comprare una nuova bicicletta, più leggera e maneggevole ma non mi riusciva di lasciare l’Alfonsina in garage per utilizzare quella nuova. Non era la stessa cosa. Di fatto, la prima portava un nome tanto evocativo, la seconda era semplicemente una bicicletta.
(testo e foto di Paola)
Nel 1924, quando era normale per tutti che il compito di una donna fosse unicmente quello di starsene in casa ad accudire a figli e marito, la giovane Alfonsina Morini in Strada, sostenuta dal direttore della Gazzetta dello Sport (che vede in lei il modo di riaccendere l’interesse su una gara che ha pochi partecipanti), ma, contro il parere di tutti gli altri organizzatori dell’evento, ha l’ardire di iscriversi al Giro d’Italia.
Il suo nome nell’elenco dei partcipanti apparirà però solo 3 giorni prima dell’inizio della gara e mancante di una “a” fondamentale: Alfonsin Strada.
Errore o volontà di omettere una presenza femminile?
Ad ogni modo il giorno della partenza viene chiarito che quell’Alfonsin era Alfonsina e il tam tam tra la gente fa sì che una moltitudine di curiosi di tutta Italia si riversasse sui cigli delle strade per vedere una ragazza che, con le gambe nude e i capelli corti, sfidava gli uomini. C’era chi scommetteva che ben presto si sarebbe ritirata, molti le davano della svergognta, altri la sostenevano e Alfonsina arrivò.
Ultima, ma arrivò alla fine.
Più di 60 uomini non avevano retto alla fatica. Lei, era caduta, aveva subito fischi, insulti, volgarità, ma aveva compiuto un’impresa percorrendo 3613 chilometri tra pianti di rabbia e dolore, restando in sella dalle nove alle diciassette ore.
dal libro “Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada”
di Paolo Facchinetti, Edicicloeditore, 2004
https://www.youtube.com/watch?v=Zg9z3POGubE
le strade di alfonsina strada (documento)
https://www.youtube.com/watch?v=7mPPmcsVSfc
“FINISCE PER A. Soliloquio tra Alfonsina Strada, unica donna ad aver partecipato al Giro d’Italia maschile del 1924, e Gesù” – Piece teatrale
https://www.youtube.com/watch?v=LZSOx_a-VYM
I Tetes de Bois cantano “Alfonsina e la bici”, con la partecipazione di Margherita Hack
Alfonsina Strada è una delle 15 “Cattive Ragazze” di Assia Petricelli e Sergio Riccardi, Sinnos Editore, vincitore del Premio Andersen 2014 nella categoria Miglior Libro a Fumetti.
Le altre 14 sono donne che hanno segnato la storia in campi diversi: Olympe De Gouges, Nellie Bly, Elvira Coda Notari, Nawal El Saadawi, Antonia Masanello, Marie Curie, Aleksandra Kollontaj, Angela Davis, Claude Cahun, Domitila Barrios De Chungara, Franca Viola, Miriam Makeba, Hedy Lamarr, Onorina Brambilla.
Per vedere un estratto del libro:
A Marisa Bellisario è stato dedicata una fondazione,
che, ogni anno, premia le donne che si sono distinte
in campo imprenditoriale, istituzionale, giornalistico,
sportivo, artistico, scientifico, culturale, internazionale.
«Marisa and gentlemen»: cosi Marisa Bellisario racconta che si aprivano le riunioni in General Eletric negli anni 60, perché tra tutti i manager dell’azienda solo lei era donna.
Nata in provincia di Cuneo nel 1935, laureata in economia e commercio a Torino nel 1959, entra in Olivetti, dove, dopo un corso di formazione a Milano, fa parte del gruppo dei primi specialisti del computer in Italia.
Marisa vive l’esperienza di questo ambiente “pionierisitco” con entusiasmo e passione, consapevole che questo momento rappresenta un passaggio significativo dello sviluppo tecnologico, indispensabile per la modernizzazione dell’industria italiana.
Dopo la cessione dell’Olivetti alla General Electric, Marisa nel 1965 viene nominata “direttore di prodotto”, diventando una delle poche donne manager nel mondo in campo informatico, settore di attività tradizionalmente maschile.
Nel 1970 General Electric si fonde con Honeywell, dando vita alla nuova società Honeywell Information Systems Italia; Marisa è ad un passo dalla nomina di Direttore Generale, ma alla sua candidatura viene preferito Carlo Peretti, in quanto la Honeywell, pur valutando positivamente la sua candidatura, ritiene prematura la nomina di una donna per una posizione del genere
Due anni dopo, richiamata in Olivetti, Marisa assume la nuova direzione della Pianificazione operativa.
E’ un compito difficile: si tratta di strutturare il passaggio dell’Olivetti dalla produzione della “grande informatica” all’”informatica distribuita”, attraverso una radicale trasformazione di prodotto e di processo e con un nuovo approccio organizzativo e commerciale.
Nel 1978 arriva in Olivetti Carlo De Benedetti, in qualità di AD, con il quale Marisa ha dei rapporti difficili e, proprio per questo, viene nominata Presidente della Olivetti Corporation of America, consociata americana che necessita di una profonda ristrutturazione.
Marisa parte per gli Usa nel 1979; la determinazione e la competenza con cui porta avanti la sfida le fa acquisire notorietà a livello internazionale: «dinamica donna italiana» così definita da Word Processing World; «rarità» tra le donne manager, donna «che si è fatta da sola» dice Fortune; chiamata alla National Computer Conference di Chicago nel 1981, prima donna ad essere “oratore principale”.
Sulla scia di questi successi , nel 1981 ritorna in Italia come AD di Italtel e in tre anni riesce a risollevare le sorti di questa azienda pubblica di telecomunicazioni, che raggruppava 30 aziende elettromeccaniche con 30.000 addetti, portando il fatturato in attivo e ampliando il mercato verso gli USA.
Il suo intervento sulle problematiche del lavoro in Italtel porta l’occupazione femminile, tra quadri e nuove assunzioni dall’8% nel 1980 al 28% nel 1985.
Il meritato riconoscimento per il suo impegno arriva nel 1986 con il premio di Manager dell’anno.
Questo non significa però che il potere di una donna in azienda venga accettato serenamente; infatti nella nuova società Telit, che avrebbe dovuto nascere da Italtel e Telettra, azienda della FIAT, l’accordo non verrà raggiunto e la società non verrà creata proprio perché il cda FIAT si ostina a negare a Marisa il ruolo di AD.
La carriera di Marisa dimostra come una donna determinata e capace, può arrivare a livelli alti da sola, senza scendere a compromessi, pur mantendo la sua forte femminilità, che irrompe nel grigio mondo degli amministratori delegati.
Il suo percorso di successo è stato interrotto da una tumore alle ossa; Marisa muore nel 1988.
Per le donne Marisa rappresenta un esempio nuovo e diverso di come ogni donna, se anche parte da zero, può raggiungere ogni traguardo di successo, in campo pubblico e privato.
A Marisa Bellisario è stato dedicata una fondazione, che, ogni anno, premia le donne che si sono distinte in campo imprenditoriale, istituzionale, giornalistico, sportivo, artistico, scientifico, culturale, internazionale.
http://www.fondazionebellisario.org
La storia di una donna così affascinante come Marisa Bellisario, richiama la problematica del ruolo delle donne in azienda.
La L.120/ 2011, ha introdotto l’obbligo per gli organi di società quotate e società a controllo pubblico di garantire tra gli amministratori l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti .
Tale criterio si applica per tre mandati consecutivi.
Dal 2011 molte più donne sono state nominate ai vertici delle aziende, ma il vero cambiamento ci sarà quando le donne verranno scelte esclusivamente per le loro capacità e le loro competenze e potranno fare carriera perché c’è un sistema di conciliazione adeguato.
Concordiamo con Barbara Saba di “ Valore D” quando afferma che “più donne ci sono nella politica, nel business , nella ricerca, più donne saliranno sull’ascensore sociale”.